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Ultraviolence di Lana Del Rey: la recensione

scritto da Francesca Parravicini

Lana Del Rey è una strana creatura. Nel giro da pochi anni è riuscita a distinguersi dalle altre “popparole”, con uno stile unico, vintage e malinconico.
Il suo successo è stato immediato, ma non privo di complicazioni. Le accuse di essere costruita a tavolino, di non essere una “vera” cantante non sono mancate, anzi. Eppure Lana è andata avanti per la sua strada. E basta ascoltare Ultraviolence per capire che ha preso la strada giusta.
Quest’album metterà a tacere tutti coloro che l’hanno accusata di essere un “prodotto” creato per vendere: le sonorità molto diverse da quelle che vanno di moda ora, per nulla commerciali.

Born To Die era pop, opulento, a tratti hip-hop. Ultraviolence è rock, notturno, jazzeggiante. Bellissimo e dark.
L’album, prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, è un ritorno alle origini, con qualcosa di nuovo. Se avete amato i lavori di Lana pre-Lana, quando ancora si faceva chiamare con il suo vero nome, Lizzy Grant (cercate sul tubo, non ve ne pentirete) amerete Ultraviolence.
Ritmi lenti, sognanti, chitarre languide, atmosfere in bianco e nero.

Cruel World è una intro perfetta. Intensa, ubriaca, si muove sulle note di un amore perduto.
Ed è proprio l’amore il tema principale dell’album. Un amore difficile, che scuote, raccontato attraverso le suadenti sfumature di Shades of Cool, l’innocenza di Brooklyn Baby, il dolore di Old Money.
Sono quasi tutte ballad (forse possiamo escludere la bonus track Florida Kilos) che ricalcano a pieno lo stile sadcore e dream pop di Lana, qui esplorato in tutte le sue ammalianti sfumature.
Nella tracklist anche il singolo West Coast (ne abbiamo parlato qui) e la tormentata Ultraviolence della quale attendiamo il video.

Qui potete scaricare l’album.

Avete già ascoltato Ultraviolence?