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La musica contro la paura: il racconto di One Love Manchester

scritto da Alberto Muraro

Pochi minuti prima di imbarcarmi sul volo che in due ore scarse mi avrebbe condotto a Manchester, una signora inglese di mezza età mi si è avvicinata e mi ha chiesto se fossi nervoso. Non pensavo si notasse, ma con il senno di poi è credibile che il mio continuo ciondolare fosse un segnale inequivocabile di uno stato di agitazione piuttosto marcato. Di motivi per essere teso, in effetti, ne avevo e pure parecchi: l’ansia di aver perso il caricatore del telefono, l’angoscia del volo (sì, ho paura dell’aereo), il fatto che di lì a poche ore avrei assistito al One Love Manchester, uno dei concerti più simbolici nella storia della musica, secondo forse soltanto al Live Aid. L’ultimo dei miei pensieri, sia ben chiaro, era il timore di poter morire sotto i colpi di kalashnikov di un giovane barbuto spiantato cresciuto a pane e Corano for Dummies.

È vero, Manchester è una città ferita, così come lo sono state Parigi, Londra, Berlino, Nizza, Baghdad, Orlando, e chi più ne ha più ne metta. Quando i giornali vi raccontano che questo centro industriale è riuscito a rialzarsi dopo essere stato sporcato del sangue di 22 vittime innocenti, sappiate in ogni caso che non si tratta di pura retorica. Fin da ben prima della strage del 22 maggio al concerto di Ariana Grande, Manchester è stata anche e soprattutto una città di duri lavoratori (da sempre rappresentati come piccole api operose) tanto fieri di essere “mancunians” da aver tappezzato le mura di mattoni rossi dei loro edifici con decine di murales e poster con su scritto “ Manchester”. Proprio in funzione di questo spirito, non ho letto alcuna paura nei volti delle migliaia di persone che hanno riempito l’Emirates Old Trafford per il mega live organizzato da Live Nation lo scorso 4 giugno, bensì voglia di ricominciare, di farsi strada fra decine di persone con bicchieri di birra in mano, di gridare “fuck terrorism” anche durante il canonico minuto di silenzio.

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One Love Manchester è stata prima di tutto un’occasione di condivisione (la spensieratezza che si viveva nel parterre, purtroppo, è difficile per me da esprimere a parole) e una manifestazione di coraggio, ancor prima che di solidarietà. Lo spettacolo deve continuare, lo dobbiamo alle vittime ma soprattutto ce lo meritiamo, è la nostra ideale risposta al terrore. E che risposta, lasciatemelo dire.

Arrivato allo stadio, un gigantesco prato dove di norma si svolgono tornei di cricket e partite di calcio, mi rendo subito conto che la situazione è piuttosto tranquilla e sotto controllo: l’imponente dispiegamento delle forze dell’ordine non corrisponde ad un’atmosfera tesa (come fu il caso del PalaAlpitour due anni fa al concerto di Madonna) e tutti, membri della security compresa, sono sereni, disponibili, ma soprattutto impazienti di godersi lo spettacolo, graziato da una calda giornata primaverile semplicemente spettacolare.

Lo show inizia puntuale come un orologio svizzero alle 19:00 e si apre con l’omaggio del sindaco e del vescovo di Manchester e successivamente con il primo, clamoroso set di Marcus Mumford che si esibisce con Timshel. Sono i primi minuti in cui lo stadio si ammutolisce, il sole inizia a calare e il cuore inizia a vibrare, perché si tratta di un’esibizione a dir poco magnifica. La canzone è simbolica, “as brothers we will stand” canta Mumford con il suo vibrato nasale, una frase molto simile a quella che io e il resto del pubblico abbiamo appiccicato sul cuore con un adesivo giallo (#WeStandTogether).

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Sintetizzare ciò che è successo nelle tre ore successive è arduo, perché vorrei raccontare ogni singola virgola senza perdere nulla, nessun dettaglio, trasmettendo se possibile le stesse emozioni vissute dal sottoscritto. Vi basti dunque con una considerazione di carattere generale: sono stati tutti, dal primo all’ultimo, perfetti. Da Justin Bieber a Miley Cyrus, passando per i Coldplay, Katy Perry e la padrona di casa Ariana Grande, tutti si sono buttati alle spalle playback e glitter per lasciare spazio alla musica, selezionando per l’occasione una serie di pezzi che ancor prima di intrattenere hanno raccontato una storia. Il cielo limpido dopo la tempesta. Il fiore che nasce dalla sporcizia. Il coraggio di fronte al terrore.

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Per la prima volta nella mia vita, lo ammetto, mi sono commosso. Non si è trattato del solito occhio lucido, bensì di un vero e proprio pianto liberatorio, scoppiato all’improvviso quando i Coldplay hanno attaccato con il ritornello di Fix You. E io che da quella canzone pensavo di esserne ormai totalmente immune, sarà che fino a pochi minuti prima cantavo Angels con Robbie Williams e Don’t look back in anger a Manchester, la canzone degli Oasis di quel Liam Gallagher salito a sorpresa sul palco e diventata il simbolo del post attentati. Voglio dire, sono cose che potrò raccontare ai miei figli.

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Ariana Grande, uno scricciolo di ragazza dalla voce pazzesca cresciuta sotto le luci dei riflettori, era probabilmente uno dei peggiori obiettivi che l’ISIS avrebbe potuto colpire. Se già gli Eagles of Death Metal, due integerrimi metallari, uscirono dal Bataclan disperati e in lacrime, figuratevi quale può essere stato lo shock di una giovane e fragile donna come lei, abituata al massimo ai botti dei fuochi artificiali sul palco e alle urla dei fan in delirio ai suoi show. Eppure Ariana il terrorismo l’ha voluto sfidare lo stesso, organizzando a soli 24 anni un concerto che ha fatto la storia. In uno dei momenti più toccanti del One Love Manchester, l’artista originaria di Boca Raton ha rivelato che la sua scaletta sarebbe stata composta interamente da hit e non da canzoni strappalacrime, come richiesto dalla madre della piccola Olivia Campbell, una delle vittime più giovani dell’attacco. Il live di Ariana si è aperto, non a caso, con la frizzante “Be Alright“: “we’re gonna be alright” canta l’artista nel ritornello, “staremo meglio“. La scelta, vista da questa prospettiva, suona come una vera e propria promessa.

 

C’eravate anche voi al One Love Manchester di Ariana Grande?