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Il tuttofare: intervista esclusiva al protagonista Guglielmo Poggi

scritto da Federica Marcucci

In occasione dell’uscita nelle sale della divertente commedia Il tuttofare, abbiamo incontro Guglielmo Poggi. Il giovane attore (classe 1991), ci parla con passione di quello che ancora oggi considera un mestiere artigianale, tra cinema, teatro e musica.

Il tuttofare è diretto da Valerio Attanasio. Nel cast, oltre a Guglielmo Poggi, vediamo anche Sergio Castellitto, Elena Sofia Ricci e Clara Alonso.

 

Come sta procedendo la promozione del tuo nuovo film, Il tuttofare, che è uscito da poco nelle sale?

La campagna pubblicitaria è praticamente finita perché il film è nelle sale da giovedì scorso e quindi deve andare con le sue gambe; inoltre nonostante l’arrivo del caldo la gente sta andando e ne siamo felici. A quanto pare c’è un buon passaparola e l’importante è proprio questo, che si parli bene del film; gli incassi in questa stagione sono relativi.

Dopo il successo di Smetto Quando Voglio – Ad Honorem torni al cinema da protagonista assoluto al fianco di Sergio Castellitto, Elena Sofia Ricci e Clara Alonso, con una commedia in cui la grande tematica è sempre la precarietà giovanile. Com’è stato per te che fai parte di questa generazione, interpretare Antonio?

Nella mia carriera al cinema ho sempre interpretato dei matti fuori di testa, basti pensare a Smetto Quando Voglio ma anche al film con Massimiliano Bruno. Qui invece si trattava di interpretare l’unico normale in un mondo di fuori di testa, in particolare di approfittatori e di gente che mangia sulle spalle dei ragazzi. Per me è stata una sfida importante che mi ha permesso di capire se ero in grado di dare vita a un personaggio normale, al di là dei soliti matti!

Questo mi ha permesso di osservare la realtà e di raccontare il mio tempo; alla fine noi millenials al precariato siamo abituati, io lo chiamo precariato esistenziale proprio perché, prima ancora del mondo del lavoro, ci sente sempre sostituibili in qualunque momento. C’è sempre qualcun altro bravo quanto tempo ma che costa meno di te. È stata questa la visione che ho voluto trasportare in Antonio Bonocore, il mio personaggio, uno sempre sorridente anche se attorno brucia ogni cosa.

Secondo te come è possibile superare quest’ottica di asservimento lavorativo e precariato esistenziale, in cui i giovani si trovano più o meno costretti a ogni tipo di lavoro pur di portare a casa uno stipendio e fare carriera?

Io parto dal presupposto che non ci sia una soluzione perché l’etica in questo momento storico non è affidabile, ognuno ha la propria. Purtroppo non c’è un codice etico condiviso, soprattutto dalla mia generazione. Quello che posso dire è che in ogni caso, che si scelga la via del bene o del male, bisogna sapere a cosa si va incontro, che è un po’ quello che abbiamo cercato di raccontare anche nel film. Ne Il tuttofare vediamo infatti personaggi che ragionano in modo molto individualista, senza confrontarsi con gli altri.

Il mio personaggio non ha amici, non ha una fidanzata: è solo uno che pensa ad andare avanti in questo suo percorso senza guardare in faccia a nessuno. Secondo me se nel mondo del lavoro si trovassero dei punti d’incontro, quello che accade ad Antonio Bonocore non accadrebbe; se sei o sette precari che fanno da assistenti a un professore si ribellassero forse qualcosa potrebbe cambiare. M se poi si sceglie di andare avanti per la strada del male, come il personaggio di Sergio Castellitto, va bene… ognuno è libero di scegliere.

Anche i tuoi genitori sono attori, quindi possiamo dire che la recitazione è una passione di famiglia. Hai sempre saputo di voler fare questo da grande oppure è stata una passione che è maturata con il tempo?

Da ragazzino in realtà non pensavo. Poi con il tempo mi sono reso conto che mi riusciva più facile del resto… di solito o uno rinnega oppure se sa di andare bene capisce che è quella la strada da percorrere. All’inizio i miei genitori non volevano, poi si sono resi conto da soli che era una spinta sincera e che soprattutto era meglio di stare chiuso al buio in una saletta di doppiaggio.

Quando ero più piccolo, per il fatto che i miei non erano molto contenti, ho fatto anche doppiaggio infatti. Poco dopo ho avuto la prima chance in televisione, quasi undici anni fa, insieme a cui sono arrivati anche il loro consenso, il loro rispetto e la loro solidarietà. Qualcosa che molti miei amici attori non hanno, la reputo una grandissima fortuna.

In questo senso come ti hanno aiutato i tuoi genitori?

Aiutarti non significa ovviamente trovarti un lavoro, i miei genitori ad esempio hanno avuto tante difficoltà. Anni indietro il lavoro si trovava e si facevano bellissime cose, mio padre vinse il Nastro d’Argento insieme al cast del film di Ettore Scola La cena e mia madre ha fatto tantissime cose a teatro; quindi per fortuna ho a che fare con due persone che hanno avuto un bel successo ma che, tuttavia, si sono ritrovate in questa contemporaneità in cui c’è una disparità fortissima tra chi ce la fa e chi appartiene a quel sottobosco di attori bravi che però non hanno la stessa fortuna.

Questo purtroppo è un discorso molto lungo e molto complesso, però di certo i miei genitori non mi hanno mai pressato sul fatto che se non ce la facevo dovevo mollare. Si tratta di una cosa con cui devono fare i conti tutti i giovani attori; magari dai 18 ai 30 anni puoi dire “ok, adesso ho davanti a me tutto il tempo per studiare, per aspettare provini e per fare il mio lavoro”, se invece dopo i 30 anni ti rendi conto che non sei riuscito a fare niente allora metti in discussione tante cose.

La psicologia degli attori, per antonomasia, è molto fragile… molti pensano “non è la mia strada” e mollano, mentre invece a 35 anni si sarebbe presentata l’occasione della vita. In questo senso l’aiuto più grande che mi hanno dato i miei è stato supportarmi mentre io continuavo a tentare senza dover trovare un piano b.

Che consiglio daresti ai ragazzi che vogliono diventare attori?

Il consiglio che do ai giovani attori è capire se ci si annoia a recitare o studiare a casa. L’esibizione ti dà quell’adrenalina, che si tratti di cinema o teatro, che è una specie di droga; ecco questa è la parte migliore, ma se quando non ha niente da fare ti annoi ad esercitarti davanti allo specchio a casa o ti annoi a studiare forse è un campanello d’allarme che quel tipo di vita non fa per te.

Anche perché credo che, in questo momento storico più che mai, sia necessario considerare quello dell’attore un mestiere artigianale perché ci sono troppi non attori che fanno gli attori. Se ci fosse più attenzione a quello che è l’artigianato di questo lavoro, sarebbe più facile.

Oltre che al cinema tu reciti anche a teatro. Dal momento che si tratta di un approccio alla recitazione molto diverso, ami entrambe le modalità d’espressione oppure ti piace di più una delle due?

Per una serie di motivi, anche economici, ho studiato di più come attore cinematografico. A teatro dovresti fare una gavetta che in questo momento non so se reggerei perché ti tiene molto lontano da casa, facendo delle tourné molto lunghe. Tuttavia, è inutile dire che quando stavo al Globe con Gigi Proietti a dieci minuti da casa mia recitando Shakespeare davanti a 1200 persone era qualcosa di incredibile, se mi dicessero che il teatro è così farei quello tutti i giorni.

Purtroppo però spesso ti trovi davanti a drammaturgie non altrettanto affascinanti, a testi che non ti piacciono e allora diventa più difficile accettare. Mentre invece per il cinema è diverso. Anche se un lavoro non ti convince su tutti i fronti c’è comunque la fascinazione del grande schermo. Ma alla fine sono comunque parole… se ti capita qualcosa di bello, al cinema o a teatro, è difficile dire di no.

Tra l’altro tu hai anche partecipato alla serie tv di Danny Boyle, Trust?

Sì, ma lì avevo una piccolissima parte. A me la televisione piacerebbe molto, ma finché non hai dei ruoli all’altezza è qualcosa che secondo me quasi non conviene fare, almeno in Italia. Bisogna stare attenti, perché se da una parte un attore ha grandi ambizioni, dall’altra deve comunque pagare le bollette. Il fatto che uno voglia fare solo cose buone e belle può non essere d’aiuto su questo fronte più pratico.

Che cosa ne pensi del fatto che Cannes abbia escluso Netflix dal festival? Sei un amante del buio della sala, ti sei convertito ai piccoli schermi dei tablet oppure sei per la famosa via di mezzo?

Io penso che siano due necessità completamente diverse, il fatto che si stia perdendo quella della sala è stupido e corrisponde solo all’ignoranza di questi tempi che si riflette poi su tutto il resto. Basti pensare alla situazione politica intellettuale del nostro paese. Alla fine perché la sala dovrebbe escludere il piccolo schermo? Il cinema come si intendeva una volta non esiste più per i produttori e la sala non è altro che una succursale del piccolo schermo; non importa se un film non va bene al box office, sai comunque che andrai su Sky, su Netflix e su una serie di altri portali che in ogni caso daranno visibilità al film.

Ovviamente viene a mancare la sacralità della sala, ma questa situazione di mezzo permette di parlare al grande pubblico che al cinema non ci va più per una serie di motivi: che si tratti di prendere la macchina e trovare parcheggio, ma anche pagare il biglietto stesso che purtroppo è molto costoso. Questo è anche colpa del fatto, secondo me, che per anni si sono fatti film brutti. Motivo per cui la gente, anche a costo di aspettare qualche mese in più sceglie Netflix o Sky, qualcosa che garantisce un altro tipo di alienazione nella comodità della propria casa facendo maratone di serie per cui non si fa in tempo ad affezionarsi che già se ne inizia un’altra.

Questo meccanismo ha ucciso la sala, ma nessuno ha capito che il cinema non è l’alternativa, è solo una cosa diversa. Le due cose potrebbero coesistere serenamente, magari creando programmazioni ad hoc; ma non succede perché non c’è la lungimiranza. Poi parliamoci chiaro, la maggior parte delle cose che stanno su Netflix sono di bassa qualità: motivo per cui la gente quando va al cinema si aspetta di vedere prodotti di quel tipo. Per quanto riguarda Cannes il discorso è un po’ diverso… quella è una dimensione talmente elitaria da essere estranea dalla realtà; un modo di intendere il commercio di film in modo quasi negativo, mentre il cinema è anche questo. È necessario che lo sia.

Oltre a recitare suoni e hai un gruppo. Come porti avanti questo tuo interesse?

Ci sono dei momenti in cui hai talmente tanto da fare che non riesci a far collimare tutto, ma per fortuna sono momenti rari. La realtà è che ci sono molte pause in questo mondo, che io riempio in vari modi. Uno di questi è la musica che è una compagna che vive con me da sempre. Io suono tanti strumenti, mi piace studiarli mi piace avere a che fare con la musica; in più quella del gruppo è una dinamica molto bella perché ti permette di continuare ad avere un rapporto personale e liberatorio con gli amici storici.

Suonare è molto più liberatorio che recitare, e per me resta un grande modo di espressione e di sfogo. Poi le audizioni musicali sono relative, il mondo musicale è un ambiente ancor più complicato di quello del cinema… però mi piace sempre andare a vedere che cosa succede nella scena musicale romana in piccolo, in quello che si può fare.

Ritengo che sia importante guardare che cosa sta diventando la musica; mi piace e dopotutto coltivo da sempre il sogno che un giorno sarò anche una rockstar – cosa che non sarà mai, anche se sarebbe bello! Un po’ come Jared Leto e come tanti altri attori che hanno fatto anche i musicisti, spero che un giorno ci sia spazio per portare al cinema quello che faccio con la musica. Dico sempre che se avessi scelto la musica al posto della recitazione qualcosa di decente l’avrei combinato! La mia musica è lì, pronta per quando servirà.

Guarda il trailer de Il tuttofare:

Che cosa ne pensate della visione del cinema di Guglielmo Poggi?