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Il Precariato: malattia cronica dell’Italia. Vittime soprattutto i giovani

scritto da admin

Ormai il termine “precariato” è diventato tristemente noto a tutti, e non perché lo si impari a scuola ma perché miete più vittime di un virus letale e le vittime sono spesso i giovani. Una volta esistevano gli occupati e i disoccupati, adesso sono nate nuove specie figlie della mutazione genetica in corso dopo la crisi economica: lavoratori internali, a progetto, collaboratori. A loro si uniscono i cassa integrati e le i lavoratori in mobilità. Il precariato appunto, persone che lavorano e che percepiscono un minimo reddito che non garantisce la pensione e non permette di fare progetti per il futuro.

Precario oggi, precario sempre

Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia nella relazione presentata alla facoltà di Economia dell’università politecnica della Marche, fa un’ importante distinzione tra flessibilità e precarietà che noi di Gingergeneration.it abbiamo ritenuto interessante proporre ai nostri lettori. In sostanza non demonizza la flessibilità quando questa viene posta al servizio del mercato del lavoro che risente di pesanti oscillazioni della domanda, soprattutto in tempo di crisi, ma evidenzia che il dramma insorge quando questa soluzione viene cristallizzata nel tempo. Precario oggi precario sempre.

Il problema del lavoro è una questione economica, sociale e culturale

Il problema precariato non va letto solo in chiave economica ma anche culturale e sociale. L’Italia, all’interno dell’Unione Europea, è decisamente agli ultimi posti in fatto di produttività e, come lo stesso Draghi sottolinea, “La mobilità sociale persistentemente bassa che si osserva in Italia deve allarmarci. Studi da noi condotti mostrano come, nel determinare il successo professionale di un giovane, il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori continuino a pesare molto di più delle caratteristiche personali, come il livello di istruzione. Il legame tra risultati economici dei genitori e dei figli appare fra i più stretti nel confronto internazionale».

L’istruzione conta ancora troppo poco

Con questi presupposti sinistri, i giovani (ma non solo) che si affacciano al mercato del lavoro sanno di avere poche chance di successo. Perché siamo ancora schiavi di logiche medievali in cui conta più la provenienza (il casato) dell’istruzione? Perché l’Università Italiana apre meno porte di una discendenza? Perché ci si lamenta della bassa produttività se poi si rinuncia al personale qualificato per paura di investire in capitale umano? Perché non è chiaro che senza uno stipendio fisso e sicuro a fine mese, vengono spesi meno soldi e se la gente non spende l’economia ristagna?
Le domande ci sono tutte ora servirebbe qualcuno in grado di trovare le risposte.