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Dune: perché sì e perché no, la recensione del film

scritto da Federica Marcucci
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A lungo atteso Dune di Denis Villeneuve è arrivato finalmente al cinema portando con sé un’aura di grandi aspettative e dando luogo a interminabili dibattiti (anche alla luce dei recenti commenti del regista sui film Marvel).

Aprendo un varco su un altro mondo, questo nuovo Dune si pone l’ambizioso obiettivo di portare sul grande schermo quanto immaginato da Frank Herbert nel 1965. Ma per capire meglio tutto questo facciamo un piccolo passo indietro.

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Ma che cos’è Dune?

Se vi state approcciando per la prima volta a Dune dovete sapere che il film di Villeneuve è tratto dal primo libro, omonimo, scritto da Frank Herbert nel 1965. Vincitore del prestigioso Premio Nebula, il libro è il primo di una saga di sei libri scritti da Herbert stesso. A questi ne sono seguiti ben 20, curati dal figlio Brian e da Kevin J. Anderson.

Stratificato quanto Il Signore degli Anelli e dalle potenzialità enormi quanto quelle di Star Wars, la saga non ha tuttavia generato un seguito di fan cosplayer o convention di cercatori di Spezia andando però a influenzare fortemente tutta una serie di opere successive. Prima tra tutte proprio la saga creata da Lucas. Si dice che Herbert stesso commentò il primo Star Wars dicendo qualcosa come “non so cosa mi stia spingendo a non fare causa”.

Le somiglianze tra le due saghe sono innegabili, ma le tematiche trattate da Dune e la modalità con le quali vengono affrontate lo rendono qualcosa di estremamente particolare in tutto il panorama fantascientifico.

Pur essendo considerato infatti una sorta di “genitore” di tante saghe moderne, Dune è una storia che mescola filosofia e politica, religione e ambiente: degli aspetti che rendono questa storia densa di significati e sì, decisamente attuale. Lo sfruttamento delle risorse della Terra o la recente questione dell’Afghanistan, per dire giusto due cose.

Ma allora perché questa saga è rimasta così di nicchia?

La forza dell’opera di Herbert è anche il suo limite più grande: è ostica da comprendere e, di conseguenza, difficile da adattare. Se mai decideste di approcciarvi al libro (cosa che vi consiglio!) vi ritroverete catapultati in mondo che capirete piano piano, a sua volta popolato da un sottobosco di personaggi di cui, a giro, viene esplorato il punto di vista.

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Logo del film del 2020 e di quello del 1984 a confronto

Insomma… una cosa abbastanza complessa. Vi basti sapere che David Lynch nel 1984 fallì nel primo adattamento del romanzo, realizzando (sicuramente a causa del pressing del produttore che non gli diede mai il final cut) un film incomprensibile anche a coloro che il libro l’avevano letto. Prima di lui ci aveva provato l’intellettuale cileno Alejandro Jodorowsky, il cui Dune mai girato è entrato nell’immaginario collettivo degli appassionati di cinema.

Veniamo a noi…

Dopo questo (necessario) preambolo capirete quindi che approcciare Dune è un’impresa complessa. Alla luce di ciò è necessario riconoscere a Denis Villeneuve il coraggio di aver provato a dipanare una matassa impossibile, sopratutto dopo l’insuccesso commerciale di Blade Runner 2049. Una scommessa messa in atto anche dalla Warner che ha accordato al regista di adattare solo la prima metà del romanzo, ma con un’opzione. Se questo non andrà bene al botteghino Dune resterà monco e non ci sarà alcun sequel.

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Un ragionamento tutto fuorché commerciale, anche se fin dall’uscita delle prime immagini Dune è stato trattato un po’ come un blockbuster… molto probabilmente per invogliare il grande pubblico ad andare in sala. Il rischio però è che questa stessa gente che va al cinema possa ritrovarsi del tutto spiazzata di fronte a una storia che, pur nella sua linearità, ha parecchi punti oscuri che possono risultare ostici per coloro che non hanno letto il romanzo. D’altro canto, coloro che hanno letto il film potrebbero rimproverare una certa superficialità d’approccio nonostante le due ore e trentacinque minuti.

Questo, in estrema sintesi è perché in questo Dune qualcosa funziona e qualcosa proprio no.

Vediamo nel dettaglio

Come abbiamo già detto il materiale di Hebert è davvero complesso da adattare. L’obiettivo di Villeneuve, come da lui stesso dichiarato, è stato quello di renderlo fruibile a tutti, compresi quelli che il romanzo non l’hanno letto. Un’operazione necessaria e che, ovviamente, ha luogo ogni volta che si adatta un libro trasformandolo in un altro medium, il film, ma che alla luce della particolarità del materiale originale qui risulta a tratti poco convincente.

Se il romanzo di Herbert è infatti un puzzle scomposto in cui il lettore deve trovare gli incastri giusti, il film di Villeneuve è un puzzle finito. Una linea retta che facilita la comprensione, ma che spolpa la storia di tutti quei significati a cui abbiamo accennato prima. Non c’è mistero nel film di Villeneuve e questo perché tutto viene svelato sin dal primo istante o, peggio ancora, viene spiegato male facendo credere allo spettatore che non abbia importanza sufficiente.

Del tipo: ok, volete produrre una serie spin-off sulle Bene Gesserit… ma il pubblico dovrà capire minimamente chi siano, no?

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Ma l’errore più grossolano commesso dal film è, ironia della sorte, lo stesso del film 1984 ovvero presentare sin da subito Paul Atreides come il Muad’dib, il Messia. Per intenderci, Herbert ci dice sì che Paul fa dei sogni, tuttavia le sue capacità non si risvegliano fino a quando il ragazzo non si ritrova solo nel deserto con la madre: un momento cruciale nella narrazione. Questo stesso momento viene trattato con più superficialità nel film perché si è optato invece per un’evoluzione meno repentina, più graduale ma per questo meno incisiva.

Una scelta che va di pari passo con una volontà (sicuramente coraggiosa) di rendere fruibile il racconto e le sue tematiche a un pubblico più ampio possibile, ma che dall’altra parte lo “svuota” di tutti quei significati che lo rendono così unico. Il risultato è la costruzione di un immaginario che prova a essere diverso ma che, nonostante tutto, appare meno potente di quello che ci aspettavamo. 

Non bastano infatti le musiche (azzeccatissime) di Hans Zimmer e la fotografia di Greig Fraser a rendere d’impatto un mondo che, almeno visivamente, viene costruito in un modo davvero minimal e che deve troppo a mondi già portati sullo schermo. Primo tra tutti il già citato Star Wars, di cui però Dune è una sorta di “genitore” (aiuto!). Tutto questo sia per rendere più familiare il tutto, come già detto, ma forse anche per una questione di costi. Già ai tempi delle primissime foto avevamo notato che parte degli oggetti di scena sembrano non essere stati costruiti appositamente per il film. Tra questi i guanti Oakley che fanno parte della tuta distillante.

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E il cast?

A parte Zendaya, che con il suo screentime di neanche cinque minuti, non è mai davvero presente in questa prima parte di Dune – sarà protagonista della seconda, se mai verrà realizzata, il resto del cast veste bene i panni dei suoi personaggi. Timothée Chalamet è un Paul credibile, anche se un po’ troppo grande anagraficamente; peccato per l’indagine poco approfondita sul personaggio di Rebecca Ferguson, Lady Jessica, la quale è eccezionale a dare vita alla Bene Gesserit concubina del Duca Leto.

In conclusione…

Andatelo a vedere perché sicuramente sarà un’esperienza diversa da quella che vi aspettavate. Alla luce di questo sarete d’accordo anche voi sul fatto che sarà complicato giudicarlo come un blockbuster qualsiasi. Nonostante tutto a questo Dune, che ha scelto di mettere da subito tutte le carte in tavola, manca qualcosa che ha a che fare con lo spirito mistico e il mistero del materiale originale.

Dune è uscito al cinema il 16 settembre. Nel cast ci sono Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Sharon Duncan Brewster, Stephen McKinley Henderson, Zendaya, Chang Chen, David Dastmalchian, con Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem.