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Blonde recensione: è stato davvero giusto raccontare così Marilyn?

scritto da Federica Marcucci
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Uscito da una manciata di giorni Blonde è in testa ai film più visti su Netflix. Nonostante tutto il film di Andrew Dominik con Ana De Armas è forse il più divisivo dell’anno, tra persone schierate a favore e tra coloro che non hanno apprezzato il modo in cui è stata raccontata Marilyn Monroe.

Blonde è film che vuole raccontare gli incubi del mondo del cinema

Frammentario e visivamente denso – a tratti quasi kitsch, Blonde fa capire sin dall’inizio dove vuole andare. Attraverso la parabola tragica di Marilyn Monroe/Norma Jean Baker il regista desidera raccontare tutte le contraddizioni del cinema, macchina di sogni e incubi per eccellenza.

Tuttavia non significa che questo funzioni. Soprattutto perché, da principio, Blonde prende le mosse da materiale (il romanzo di Joyce Carol Oates) non storicamente accurato e che si prende molte, troppe libertà.

L’idea di voler raccontare lo sdoppiamento della diva per eccellenza, la quale per tutta la sua vita ha dovuto fare i conti con un’immagine che le era stata cucita addosso e un’interiorità problematica e fragile è interessante. Così come è interessante la tematica dell’oggettificazione del corpo di Marilyn e del suo rapporto con gli uomini, in primis con l’ombra del padre forse mai realmente conosciuto.

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Mentre si guarda Blonde però ci si sente a disagio. Un disagio che, sottolineo, è programmato e voluto, poiché nasce dal fatto che lo stesso Dominik, insieme ad Ana De Armas (bravissima, anche se a tratti caricaturale), realizza un film in cui l’oggettificazione di Marilyn è portata allo stremo.

Chissà, forse siamo davanti a uno di quegli sfortunati casi in cui le buone intenzioni si perdono e il risultato finale è davvero molto – troppo lontano, dall’idea iniziale. Resta il fatto che Blonde sembra avere qualcosa di sbagliato per questo suo sbatterci addosso una donna che non esce mai dal ruolo di vittima-oggetto. E no, non basta dire che la volontà era quella di farci vedere che il cinema non solo ha creato Marilyn Monroe ma l’ha anche distrutta.

Non basta perché il grottesco prevale e riesce a fagocitare qualunque sentimento di empatia nei confronti di Marilyn/Norma Jean e della sua triste vita. Ovvio: il motivo dell’operazione si capisce, ma ciò non significa che abbia un senso.

Dopo quasi tre ore quello che resta davanti ai nostri occhi è una bambola sgualcita che per tutta la sua vita ha i fatto i conti con abusi, dipendenze, daddy issues abbastanza tossiche e un desiderio di maternità che sfocia in alcune delle sequenze più problematiche di tutto il film. Soprattutto di questi tempi.

È come se, ancora una volta, ci avessero mostrato il corpo di Marilyn e le sue disgrazie emotive. Senza però soffermarsi sul fatto che, nonostante il ruolo che le avevano cucito addosso, Marilyn è molto di più, nel bene e nel male. Nel corso della sua vita Marilyn ha studiato per diventare un’attrice drammatica,  ha viaggiato sotto falso nome, si è convertita all’ebraismo, era un’assidua lettrice e probabilmente soffriva di endometriosi (il che spiegherebbe il gran numero di aborti spontanei).

Non è semplice raccontare le icone poiché sono figure sempre a metà tra la luce e l’ombra. Blonde è un film strano perché – forse con l’obiettivo di umanizzare la sua protagonista, la oggettifica come mai prima rendendola priva di qualunque spessore.

Quindi la domanda sorge spontanea. È stato davvero giusto raccontare Marilyn in questo modo? 

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