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Black Lives Matter: riscoprire il passato per capire il presente

scritto da Federica Marcucci
black lives matter

T.H.U.G. Life, ovvero “The Hate U Give Little Infants F***s Everyone”. Erano gli anni ’90 e lo slogan Black Lives Matter non c’era ancora ma il rapper 2Pac, insieme a molti altri, era in prima linea per denunciare l’odio razziale. Qualcosa che, come giustamente sottolineava lui stesso, era una piaga da estirpare alle radici della società poiché capace di corrompere gli individui più duttili. I bambini.

E un paese che insegna l’odio ai bambini è un paese perduto.

Proprio in quegli anni gli USA furono sconvolti da proteste simili a quelle vediamo in tv in questi giorni. Basti pensare alle rivolte di Los Angeles del 1992, ma anche ad altri episodi nel corso del decennio. Lo stesso 2Pac morì a seguito di un’aggressione armata e, purtroppo con lui, molti altri.

Come è tristemente noto non si tratta di episodi sporadici. Le rivolte a sfondo razziale sono una macchia che negli USA ha dilagato dagli anni ’60, fino ai recentissimi fatti di Ferguson del 2014 arrivando fino a oggi.

Il movimento Black Lives Matter, nato nel 2013, diventa perciò oggi più che mai un grido necessario per una piaga che distrugge la comunità afroamericana, e le minoranze in genere, ormai da troppo tempo. Ecco perché per capire cosa sta succedendo oggi, in seguito alla morte di George Floyd per mano di un agente di polizia, è necessario fare un passo indietro e guardare alla Storia.

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L’arrivo degli afroamericani negli USA

Forse non tutti sanno che le prime navi di schiavi attraccarono in America quando gli Stati Uniti erano ancora una colonia inglese. Siamo nel 1619.

 

Alla nascita degli Stati Uniti d’America, nel 1776, la schiavitù era ormai una prassi consolidata e legalizzata, soprattutto negli stati del sud. Qui, dove la richiesta di manodopera per i campi di cotone era altissima, venivano portate centinaia di persone che diventano automaticamente proprietà dei padroni bianchi i quali potevano letteralmente farne quello che volevano.

La Guerra di Secessione

Gli schiavi perdevano il loro nome e cognome, diventavano fantasmi e molto spesso venivano anche divisi dalle proprie famiglie. Non a caso l’impossibilità di risalire alle proprie origini è ancora oggi una ferita dolorosa nell’eredità culturale degli afroamericani.

 

Proprio sulla questione degli schiavi gli USA fecero una guerra civile che sancì la vittoria degli stati del nord e la fine della schiavitù, con il famoso XIII Emendamento. Siamo nel 1865.

Il segregazionismo

Il movimento Black Lives Matter è perciò figlio di un problema dalle radici profonde. Un razzismo che, purtroppo, non è solo un fatto culturale, ma qualcosa regolamentato. Qualcosa che, come una lente distorta e appannata, ha sempre fatto sì che la maggior parte della popolazione bianca vedesse i neri attraverso l’immagine falsata del criminale, del predatore, del drogato. Una concezione fomentata, nel corso degli anni, da falsi stereotipi, paura, ignoranza.

Ma soprattutto da una giustizia tarata in base alla razza. Essere neri significava automaticamente, e significa ancora oggi, avere maggiori possibilità di finire in carcere per il solo colore della pelle, per esempio.

In questo proprio il XIII Emendamento esprime tutta la contraddittorietà dell’idea americana di libertà:

“Tutti i cittadini degli Stati Uniti d’America sono liberi, tranne i criminali”.

Questo il nodo fondamentale della lotta pluriennale degli afroamericani: sdoganare dei privilegi falsi e dare valore a un popolo da sempre guardato con paura, disprezzo come se si trattasse di esseri bestiali. Per questo il problema della razza è da sempre cruciale negli USA, che si parli di cultura o politica.

Dopo la guerra civile la maggior parte degli stati del sud emanano leggi segregazioniste che sarebbero rimaste in vigore fino a tutti gli anni ’60. Negli stati del nord la situazione era un po’ diversa, ma non per questo facile. Basti pensare ai tanti ghetti che nascevano ai margini delle metropoli, da New York a Chicago.

Questo perché nascere nero significava essere un cittadino di serie b, senza alcun tipo di diritto reale. Significava non poter frequentare certi quartieri o negozi, ma anche scuole dove campeggiava la scritta “White People Only”. Nella società del dopoguerra fino agli anni ’60  tutto si sdoppia e sorgono due versioni di tutto, dove ovviamente quella per i neri è la peggiore.

Le leggi razziali venivano anche chiamate “di Jim Crow”. Jim Crow è il personaggio di una filastrocca diventato poi  una caricatura razzista degli afroamericani. L’attrice Viola Davis ha recentemente pubblicato un post molto interessante a riguardo.

https://www.instagram.com/p/CA1laNKh0vA/

Essere nero significava anche comprendere sin dalla nascita l’idea di doversi comportare in un certo modo di fronte ai bianchi. Questo perché molta di quella gente non scherzava e poteva fare del male per nulla. O meglio per odio e ignoranza. Basti pensare all’associazione suprematista per eccellenza, il Ku Klux Klan.

Innumerevoli sono i tristi episodi di neri impiccati sugli alberi. Un’immagine diventata poi una canzone di protesta contro i linciaggi subiti dagli afroamericani, Strange Fruit.

Le storie di chi ha alzato la voce

Poter aspirare a una carriera o alle stesse possibilità di un bianco era impensabile per un afroamericano. Ma per fortuna, molte persone hanno sempre compreso che “Black Lives Matter” e hanno avuto il coraggio di alzare la voce ispirando molti altri. Anche a costo di rimetterci la vita o la carriera.

Nina Simone, passata alla storia come cantante e pianista jazz e soul, non fu mai accettata al conservatorio perché nera. Voleva fare la pianista classica, ma in seguitò sfrutto il suo successo nella musica per la causa dei diritti civili.

 

Hazel Scott fu una delle prime star afroamericane del cinema. Pianista e cantante molto dotata, si rifiutò di indossare stracci durante la scena di un film. Per questo la Columbia rescisse il suo contratto.

 

Sam Cooke, cantate e produttore, fu uno dei primi afroamericani ad assumere una posizione di rilievo dell’industria discografica. Fu ucciso in circostanze mai chiarite, probabilmente perché la sua voce si era fatta troppo forte. Prima di andarsene pubblicò la canzone A Change Is Gonna Come, sull’onda del movimento dei diritti civili.

 

Rosa Parks e il movimento dei diritti civili

La vera svolta per la comunità afroamericana arriva però negli anni ’60, quando il dibattito sulle condizioni di vita dei neri inizia a essere guidato da leader carismatici che diventano delle vere e proprie guide per la comunità. Sia dal punto di vista politico che spirituale, un aspetto quest’ultimo da sempre molto presente nella cultura black.

Martin Luther King e Malcolm X (“X” in rifiuto del suo cognome bianco, retaggio della schiavitù) sono stati due dei leader più importanti di questo periodo. Due personalità forti che sono riuscite a raccogliere la voce degli afroamericani infondendo coraggio e speranza.

 

È proprio in questo periodo che Rosa Parks, una donna afroamericana, si rifiuta di cedere il suo posto a un bianco in un autobus. Un gesto passato alla storia e diventato simbolico della protesta nonviolenta ispirata da King.

 

Entrambi, King e Malcolm X, sono stati brutalmente assassinati. Negli anni altre figure di rilievo sono state allontanate, messe in silenzio, processate, come Angela Davis, o uccise come Fred Hampton, uno dei leader delle Black Panther. Nonostante tutto molti passi avanti sono stati fatti da allora a oggi. Tuttavia non basta. E Black Lives Matter, ormai dal 2013, ce lo sta ricordando ogni giorno.

E oggi che cosa succederà?

Non è chiaro dove porterà il movimento Black Lives Matter, certo. Come molti manifestanti hanno sottolineato è triste che ancora oggi si debba protestare per le stesse cose di 40 anni fa. Non a caso quello che più emerge dai fatti odierni è la tristezza, ma anche la rabbia.

Questo fa paura perché la sola rabbia è sterile, ma non solo. È un sentimento che può essere sfruttato per giustificare la violenza, come ricordava Barack Obama sui social qualche giorno fa. Probabilmente quello che manca a Black Lives Matter è un leader capace di dare una voce univoca al movimento. Ma la Storia ci dirà.

 

A oggi possiamo però pronunciarci sul fatto che l’idea di università di Black Live Matter potrebbe davvero fare la differenza rispetto al passato. Abbracciato dalla comunità afroamericana, e non solo, Black Lives Matter, è diventato lo slogan di tutti. Un vero e proprio grido unanime di tutti coloro che dicono basta a differenziazioni basate sull’etnia o il genere. Ricordiamo che siamo anche nel Pride Month.

 

Certo, sicuramente questo non basterà. Negli USA il 13% della popolazione è afroamericana. Molti di loro vivono ancora con uno stipendio minimo, senza avere accesso a cure o istruzione superiore. Questo crea tensioni soprattutto negli stati del sud, dove lo stesso scontento è vissuto anche dalla popolazione bianca. Non a caso la base elettorale più forte di Trump, un figura che rende questo momento storico ancor più assurdo e surreale.

Come abbiamo visto, i fatti di oggi sono solo la punta dell’iceberg di un male antico e radicato. Per far sì che le cose cambino sarà necessario tanto coraggio e altrettanta consapevolezza, da parte dei singoli. In primis nel corso delle primarie presidenziali di quest’anno, negli USA, ma anche nella vita di tutti i giorni in tutto il resto del mondo.

Solo così sarà possibile sperare in cambio di rotta, un cambiamento vero. Proprio come cantava Sam Cooke. “It’s been a long, a long time coming/But I know a change gonna come, oh yes it will”.