GingerGeneration.it

Squid Game: una riflessione sulla serie e sul suo futuro

scritto da Federica Marcucci
squid game

Per settimane sul podio delle serie Netflix più viste, Squid Game ha saputo guadagnarsi un posto tutto suo sul panorama delle serie contemporanee. Tra plauso e non poche critiche.

Oggi, all’indomani del rinnovo della serie per una seconda stagione, vogliamo fare una riflessione sul lascito di Squid Game e su cosa significhi per la serie – e non solo, la realizzazione di una seconda stagione.

Ideata da Hwang Dong-hyuk nel corso di 10 lunghi anni, Squid Game ha avuto il merito di portare nelle case di tutto il mondo un prodotto d’intrattenimento che difficilmente avrebbe avuto così ampia diffusione in un’era non globalizzata. Anche se profondamente influenzata dalla cultura occidentale (basti pensare al ricorrente valzer Sul bel Danubio blu, alle inquadrature che ricordano quadri di Escher o al cinema di Kubrick, per fare un breve elenco), Squid Game è figlia del proprio contesto culturale.

Dall’idea delle sfide ispirate a giochi tradizionali, alla percezione del denaro, tutto in Squid Game racconta, a suo modo, della sua terra. Una Corea del Sud in cui la differenza tra ricchi e poveri è spaventosa, in cui è difficile potersi garantire un futuro e per questo si vive alla giornata e in cui l’ombra della dittatura della Corea del Nord non è così lontana. Qualcosa che, in modo diverso ma non meno cruento, ci aveva raccontato anche Parasite vincitore del Premio Oscar lo scorso anno.

La chiave per comprendere Squid Game, come del resto qualunque altro prodotto audiovisivo, è proprio questa: calarlo nel proprio contesto d’origine. Solo così le scelte dei realizzatori, pure se azzardate, possono assumere un significato più completo che no, non giustifica la violenza ma al contrario ci fa riflettere sulla sua natura.

Tuttavia mostrare la violenza al cinema o in tv è scomodo, e sopratutto non è facile. Sopratutto quando si ha a che fare con un pubblico vastissimo come quello di oggi. Pensiamo ad Arancia meccanica, un film di denuncia sulla violenza spesso additato di istigare egli stesso alla violenza. Una deduzione errata che è derivata da interpretazioni superficiali e che si è replicata anche oggi con Squid Game.

squid game

Il motivo?

Oggi siamo abituati a guardare di tutto, una serie dopo l’altra, spesso senza fermarci a riflettere su quello che abbiamo appena visto. Se quindi un film come Arancia meccanica poteva essere mal interpretato negli anni ’70, oggi con Squid Game è tutto più amplificato e complesso.

Se infatti da una parte c’è la corrente di pensiero che ha bollato la serie come “violenta”, dall’altra c’è tutto un altro schieramento di spettatori che ha guardato (e fatto guardare Squid Game) così, come fosse l’ennesima serie proposta da Netflix.

Lo spirito onnivoro e superficiale c’è in entrambi i casi, poiché il riconoscere e il non riconoscere la violenza non equivalgono alla sua comprensione.

E qui in mezzo ci sono sicuramente tutti quei bambini, spettatori passivi, che si sono trovati a guardare qualcosa che non hanno capito, che non gli è stata spiegata e che non hanno ancora gli strumenti per decifrare. Qualcosa che ci fa ripensare al famoso “bollino rosso” che negli anni ’90 faceva un po’ da monito a tutti coloro che volevano avventurarsi in una visione “da grandi” e che magari impressionava più del film stesso.

La censura non è mai la via giusta, ma una visione consapevole e adatta allo spettatore sì. Per questo motivo ci auguriamo che possa esserci un tipo di approfondimento diverso quando Squid Game 2 sbarcherà su Netflix.

Per quanto riguarda il futuro della serie… che cosa ne pensiamo?

Chi scrive crede nei finali aperti e non nel bisogno di dover sempre fornire risposte chiare allo spettatore. Un finale Squid Game ce lo poteva anche avere, ma a questo punto restiamo in attesa.