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Stride la vampa, racconto di Lara Manni – Parte 1

scritto da Laura Boni

Grazie a Fazi Editori e Lara Manni, abbiamo per un voi un’occasione speciale. Leggere un racconto della promettente scrittrice di Tanit direttamente su tuo computer. GingerGeneration.it ha deciso di pubblicare uno dei racconti che Lara ha scritto  in occasione del contest legato alla uscita del suo ultimo libro: i due vincitori del concorso hanno potuto mandare delle indicazioni alla scrittrice che ha creato due racconti per loro. Quello che proponiamo qui è Stride la vampa, il racconto che Lara Manni ha scritto su commissione della vincitrice Valentina Graziani. Per rendere l’avventura della lettura più interessante, abbiamo deciso di pubblicare il racconto in puntate durante tutta la settimana.

Stride la vampa – Parte 1  di Lara Manni

“Ti dicevo. Quando l’ho visto per la prima volta con la divisa del coro, i pantaloncini blu al ginocchio, e la camicia bianca. Stirata e inamidata, si capisce. Una volta le camicie si inamidavano. Il collo, i polsini. Si tamponavano con l’appretto, lo sapevi? No, non puoi saperlo. Non ti ci vedo a stirare una camicia. E poi l’amido non si usa più. Peccato. A me piaceva. Compravo l’amido di riso, quando era bambino. Gli lavavo il sedere, le ascelle, il collo. E anche quando è cresciuto, gli lasciavo le bustine vicino alla doccia, perché ha sempre avuto la pelle inamidata. Oddio. Inamidata. Delicata, volevo dire. E’ che mi confondo. Sono vecchia e mi confondo. Tu non hai idea di quello che significa. Non è solo una questione di ossa. Mi fanno male, le ossa, certo. Come a tutti i vecchi. La gamba destra soprattutto. Brucia, dal ginocchio all’inguine, come se avessi un filo incandescente dentro la carne, e il filo la consuma, ogni minuto, non smette mai,  e ogni tanto manda una fiammata più alta. Piano e forte, forte e piano. Come la musica, proprio adesso. La senti anche tu, anche se sei giovane e non capisci.

Sinistra splende – sui volti orribili-

La tetra fiamma – che s’alza al ciel!

Non ti piace Verdi, lo so. Invece a me le musiche che ascolti tu non dispiacciono, vedi la differenza? Io sono curiosa, tu sbuffi. Alejandro, per esempio, mi piace proprio. Don’t call my name
Don’t call my name. Ale-ale-jandro.  Ti dicevo”.

A quel punto, Viola si ferma, con la mano a mezz’aria e la carta che le trema fra le dita. Un quattro di denari, questo pomeriggio:  quattro soli ghignanti a pochi centimetri dalla faccia di Maria. Ci siamo, pensa Maria mentre si alza, fa scorrere l’acqua dal rubinetto, riempie un bicchiere, lo accosta alle labbra di Viola, la costringe a bere. La carta scivola dalla mano, cade sul tavolo, i quattro soli guardano e ridono. Una risata da assassini, pensa ancora Maria. E subito dopo pensa che ha la testa piena di stronzate e che non ce la fa più, non arriverà alla fine di marzo, altro che tre mesi, il pomeriggio dalle quattro alle otto, quattrocento euro al mese, in nero, il tempo che arrivi la primavera, che la badante di Viola torni dalla Romania. Un lavoro come un altro.

Spegne il lettore cd.

Viola ha abbassato le palpebre, la testa ciondola sul petto. Si addormenta sempre dopo che si è infilata nei buchi. Maria li chiama così: immagina la mente di Viola  come una persona che ha bevuto troppo e cammina di sbieco, scivola sul ghiaccio, inciampa e finisce nel buco. Succede sempre più spesso, e quando la vecchia esce dal buco non ricorda di esserci caduta e riprende a raccontare dallo stesso punto in cui si era fermata. Dicono che sia Alzheimer precoce. Maria pensa che il cervello di Viola non ce la faccia più a ricordare sempre la stessa cosa. Stefano che era il  figlio migliore del mondo e che è morto. Facile da dire, no? Difficile da sopportare, immagina. Per quel che gliene importa.

Va alla finestra, la spalanca. L’aria è fredda. Il cielo è coperto. Se non ci fossero le nuvole, fra poco dovrebbe apparire una falce di luna rovesciata, proprio come un sorriso. Luna a barchetta, la chiamano: succede raramente e quando succede è un brutto presagio, Maria lo ha letto stamattina su Facebook. Alza la mano, la passa fra i capelli.

Brutto, va bene. Almeno succedesse qualcosa. Non succede mai niente. Non a me, comunque.

Maria ha venticinque anni, non si è ancora laureata. A dirla tutta, ha dato solo cinque esami. E’ per questo che è qui. A fare la balia a una vecchia demente, ad ascoltare le sue insopportabili opere liriche e i suoi monologhi su Stefano. Stefano bambino, Stefano adolescente, Stefano ragazzo. Il più bello, il più intelligente e, oddio, perché non è morta anche lei? “Sarebbe bastato dire: vengo con te, mi dai un passaggio e mi lasci da Romoli, mangio un maritozzo con la panna, fanno i maritozzi più buoni della città, da Romoli, poi torno con l’autobus”. Invece – Maria lo sa, ha imparato a memoria quella parte – Stefano è uscito mentre la madre faceva il solitario, come tutti i pomeriggi, ascoltando Verdi, come tutti i pomeriggi. Era distratta, però. Viola lo ripete sempre: “quel giorno avevo la testa da un’altra parte, proprio mentre dovevo stare attenta. Succede sempre così, ti distrai e il destino ti colpisce alle spalle”. Perché Stefano era giovane e libero e solo, e non si è accorto che stava correndo troppo, e  non c’era nessuno seduto al posto del passeggero a dirgli “ehi, non ti sembra di esagerare?”. Non c’era lei, Viola. Che calava un quattro di denari mentrela Renaultdi Stefano sbandava a sinistra e poi a destra e infine si accartocciava contro il muro sbriciolandosi come una foglia secca e sbriciolando anche Stefano, e con lui la vita di Viola.

Maria alza il viso, ora cade una pioggerella gelida. Si sporge, si bagna le guance. E’ comunque qualcosa di diverso, meglio infilare la testa sotto la pioggia che guardare Gordon Ramsey mentre impreca contro un cameriere o cambiare il colore dello smalto (blu, magari: più tardi proverà a vedere come le sta). Non vuole essere qui. Sono solo quindici giorni che “tiene compagnia a Viola”, come le ha chiesto sua madre (come le ha ordinato sua madre: se non studi, niente soldi, torni a casa e lavori. E se non vuoi tornare, cominci a lavorare a Roma, il pomeriggio, e la mattina metti il tuo bel nasino sui libri. C’è una signora che ha bisogno, per esempio”. La signora bisognosa era Viola. La mattina veniva un’altra badante, in attesa che tornasse quella che la accudiva da cinque anni. Puliva, rifaceva il letto, cucinava. Maria doveva solo entrare in casa e restarci. Aprire ogni tanto le finestre per mandare via la puzza di sudore e di vestiti vecchi. Friggere una fettina di carne quando a Viola veniva voglia di fare merenda, e voleva farla con la fettina e un panino all’olio, “mai dato retta ai medici e non comincerò adesso”. Ascoltarla mentre raccontava, guardare con lei gli album di fotografie con Stefano sul passeggino-Stefano vestito da moschettiere-Stefano il primo giorno di scuola, farsi venire il mal di testa con Verdi,  sempre la stessa aria e sempre la stessa voce di donna.

Stride la vampa! – la folla indomita
Corre a quel fuoco – lieta in sembianza

Maria sbuffa. Si riempie la faccia di pioggia, spera che lavi via la noia, la stanchezza, il disgusto che le torce lo stomaco ogni volta che si chiude in quella casa piccola e piena di fotografie e di statuine. Gatti. Solo statuine di gatti. Gatti d’argento, gatti egiziani a forma di mummia, gatti di plastica, di vetro, di terracotta. Gatti. Siamesi, persiani, tigrati, rossi, neri, grigi. Da ogni scaffale, su ogni tavolino, sopra il mobile dei dischi. In cucina, persino. “Stefano faceva collezione di gatti”, le aveva detto Viola, mentre calava le carte in un solitario che occupava tutto il tavolo, e non riusciva mai a risolvere. Napoleone, si chiama il solitario. Maria conosce solo i solitari del computer, a volte ci si chiude quando la noia raggiunge il culmine. Era stato Stefano a insegnare Napoleone  alla madre. La casa era raggelata nel ricordo di Stefano, e Maria era prigioniera della casa.

A domani la parte 2….